30 maggio 2010

LA BELLEZZA CONTRO LE MAFIE

E torna a coppi. 
L'altro giorno, nuova intimidazione al procuratore Pignatone. E' l'ennesimo episodio che si registra ai danni degli uomini della procura reggina.
E' dall'inizio dell'anno che il passare dei mesi viene praticamente scandito da ordigni, lettere minatorie, proiettili, ecc. Sono tutti segnali inquietanti.
Così come è inquietante –qualunque ne sia la motivazione- la notizia sempre di qualche giorno addietro del trasferimento del pm Francesco Neri (che indagò sulle navi dei veleni), stabilito d’ufficio dal CSM per incompatibilità ambientale.
Ieri pomeriggio, puntuale, la nuova manifestazione di solidarietà (così com’era successo il giorno dopo l’arresto del boss Tegano), con un corteo che ha percorso tutto il corso Garibaldi, da Piazza De Nava fino a piazza Duomo.
Indubbiamente sono reazioni che fa piacere registrare, specie se paragonate al silenzio, a quell’aria di paura, di puro terrore, che si respirava a Reggio negli anni della ultima, terribile, guerra di mafia conclusasi alla fine degli anni ’80.
Così come a Palermo dopo l’arresto di Provenzano, oggi Reggio e Scilla con la recente manifestazione “Basta Indifferenza” sembra vivere una nuova stagione, nella quale si fa strada la consapevolezza che vivere nella legalità è bello.
E la bellezza della legalità, a noi calabresi la insegnano oggi gli uomini della procura come Pignatone o Gratteri, poliziotti come Cortese; l’hanno insegnata uomini come il Giudice Antonino Scopelliti, di cui si parla troppo poco, ma la cui figura è stata ricordata di recente in una bella trasmissione che va in onda su Radio Uno Rai: “La bellezza contro le mafie”.  L’orario di messa in onda non è dei migliori e più comodi, ma, pur nella brevità del formato, il tema trattato e le testimonianze dirette di chi ha sofferto, ha combattuto e combatte la mafia, fanno riflettere. Consigliamo a tutti di seguirla.
E contro la mafia si è elevata oggi la voce di tre giovanissimi reggini che hanno ricevuto il premio letterario, sul tema della legalità, intitolato proprio al Giudice Scopelliti, indetto annualmente dal Lions Club di Campo Calabro.
Tra di loro lo scillese Andrea Bova, alunno della III A della Scuola Media “G. Minasi”, uno di quelli della Banda del sogno interrotto. Complimenti!
Diceva Giovanni Falcone: "La mafia è un fatto umano e come tutte le cose umane avrà' un inizio e una fine"
Beh, se per uno che invia lettere anonime con dentro proiettili, ci sono poi  manifestazioni come “Basta indifferenza” e tre esempi di bellezza come quelli di Andrea e dei compagni premiati, allora la fine di cui parlava Giovanni Falcone è sempre più vicina.

26 maggio 2010

I SCECCHI BARDATI 'I CADORNA E I SCECCHI MODERNI

Il mese di maggio è il mese del giro d'Italia. In particolare, gli ultimi giorni dell'edizione  di quest'anno ci ha regalato e ci regaleranno ancora grandi emozioni, grazie soprattutto alle grandi montagne. In pochi giorni si sono scalati prima il Monte Grappa (1775 m s.l.m.) e poi lo Zoncolan (1730 m s.l.m.), la più dura salita del Friuli e una delle prime 10 d'Italia. A venire, venerdi prossimo, nella tappa che arriverà ad Aprica si scalerà il passo del Mortirolo (1854 m s.l.m.) e sabato il mitico tappone finale, con la cima più alta di quest'anno: il passo del Gavia, con i suoi 2618 metri s.l.m.
Sono tutte montagne storiche del nostro Giro, posti incantevoli cui si arriva attraverso stradine spesso strette e tortuose, con pendenze da capogiro, che uno, a vederli pensa: ma pirchì 'a ficiru 'sta 'strata?
Beh, nel caso del monte Grappa e dello Zoncolan, sono stradine realizzate nel corso della prima guerra mondiale (1918). A guardarle dall'alto sembrano disegnate da un computer di ultima generazione: le curve sono modellate sul terreno in una maniera così precisa che sembra quasi che il nastro stradale sia incollato solo temporaneamente, per permettere il passaggio dei corridori, e che verrà tolto via appena la carovana del giro sarà passata. 
I vari tornanti seguono il profilo naturale della montagna e, dall'alto, è possibile ammirare la perfezione con cui raccordano i tratti di strada a quota diversa.
Ma quale macchina ha consentito all'uomo di realizzare queste opere? Nessuna.
Queste vie di comunicazione sono state costruite nel 1918, quando i computer non erunu mancu nta menti 'i Ddiu, cu rispettu parrandu. 
Gli autori di queste opere d'arte dell'ingegneria stradale italiana sono stati...i scecchi bardati!
Sì, proprio loro, i simpatici asinelli, assurti per chissà quale motivo, a simbolo negativo. E invece no: erano loro a guidare letteralmente gli ingegneri che li cavalcavano e gli uomini del generale Cadorna, su per gli impervi versanti delle Alpi. 
Per sua disposizione naturale, infatti, 'u sceccu bardatu percorre i tratti di terreno che hanno pendenza costante, scegliendo quindi il percorso più agevole per superare dislivelli anche importanti, per di più trasportando pesi non indifferenti.
Questo scecchigno istinto naturale è divenuto poi base scientifica per la progettazione delle strade, grazie al cosiddetto "tracciolino".
Si andò avanti così fino agli anni '50. Poi le cose sono cambiate: grazie a Dio iammu tutti a' scola, ndi pigghiammu tutti nu pezzu 'i carta e, con l'avvento dei computer e delle macchine divintammu tutti archi di scienza.
Cusì, i scecchi 'i rassammu prima nte staddhi e poi li abbiamo mandati in pensione, spingendoli quasi all'estinzione. Ora abbiamo i satelliti, il GPS, i computer e le motopale, perché mai dovrebbe servirci nu sceccu bardatu?
Capita spesso però che la nostra sicurezza vacilli.
Vardati:
in questa foto scattata da Angela Gatto -una ragazza che si diverte facendo voli in parapendio e simili, volteggiando allegramente per l'aere scigghitanu- si vedono chiaramente (in basso a sinistra) i container posti a salvaguardia del traffico transitante sulla A3, dopo il crollo dell'enorme pezzo di roccia staccatosi dalla soprastante montagna che ne ha provocato la chiusura totale per diversi giorni.
La roccia s'è staccata -secondo i rilievi effettuati dagli esperti- circa 300 metri a monte rispetto all'autostrada.
Ma allora, ci siamo chiesti tutti, che collegamento può esserci tra l'autostrada e una parte di territorio impervio posto trecento metri più sopra? Elementare, Watson: 'na strada!
O, almeno, 'na speci di mulattera, quella appunto che si vede nella foto.
A dire il vero, qualcosa s'intravede anche nei particolari di queste foto:


Nelle immagini -in particolare nella seconda, tratta dal Centro Cartografico della Regione Calabria- tra gli alberi è possibile notare una sorta di W, la stessa che si vede nella prima foto. E' una strada sterrata che si diparte da una vecchia stradella che arrivava fin sotto al Piano di Bova, come visibile nella carta sotto

Gli stessi esperti hanno fin qui escluso che la frana sia stata dovuta a fenomeni naturali. Un dato che può confermarlo è il Piano di Assetto Idrogeologico: la zona interessata non è segnalata come a rischio frana, come visibile nella relativa cartografia:
Di chi la colpa? Non lo so, lo appureranno le autorità competenti che stanno conducendo le indagini.
Quello che so è che piuttosto che una volta esclusa la causa naturale, non rimane che una causa antropica, vali a diri, generata dall'intervento umano.
Ma l'uomo potrebbe, anzi dovrebbe ricordare che le macchine, i computer e tutti gli ausili e i mezzi che adopera, non agiscono in modo naturale ma obbediscono solo a dei comandi meccanici predefiniti e preimpostati sulla base di calcoli che, purtroppo, spesso non siamo più nemmeno in grado di verificare.
Voi pensatela pure come volete. Personalmente, preferirei che i sapientoni e i professoroni tuttologi dei nostri giorni prendessero esempio dagli ingegneri di un tempo e avessero l'umiltà e soprattutto l'intelligenza di affidarsi a nu sceccu bardatu, com' e tempi 'i  Cadorna, piuttosto che dimostrarsi nei fatti degli emeriti scecchi. Computerizzati magari, moderni quantu vuliti, ma scecchi.

17 maggio 2010

O' SCIGGHIU OR COMU SI STA?

Prendendo spunto dalla manifestazione di venerdi scorso, che ci auguriamo rappresenti un punto di svolta per la comunità scigghitana, vi propongo la malaversione di "Ma non ho più la mia città", canzone di Gerardina Trovato, peraltro magnificamente interpretata dalla scigghitana  Nina Longordo


Cu ddhi quattru to' sciammissi
tu ru Scigghiu ti ndi iasti
“Ch'i munzogni non cumbattu,
ccà non s'usa cchiù 'u rispettu”
Mi ricisti “Mi nd' ha gghiri,
nci l'è fari a ogni costu,
ma chi ordini è mintiri?
ccà non 'spettu, nenti è a postu.
Puru tu, pirchì non veni,
o' Scigghiu ormai c'è sulu feli.”


Tu partivi 'na matina,
ca valigia 'i finta pelli,
pi circari la furtuna,
nenti cchiù ifattu nc'era.
E l'occhi no, non hai vutatu,
sì, evitasti di ciangiri
ma la 'Merica, ch'è strana
ma la 'Merica la 'Merica!
Non vulivi avir bisognu
certu 'i iari tu a New York.


E spessu pensu a tandu
ma ora staiu turnandu
“O' Scigghiu or comu si stà?
Cu' sà, cangiau 'a genti,
ch' i fatti ha cchiù rispettu
o è ancor cusì 'ndolenti?”


“E non potti fari a menu
sì, 'u sapivu ch'era dura,
'chì o' postu ru rispettu
o' Scigghiu c'era sulu feli.
Sì circai a ogni costu,
di putiri 'ssir migliori.
Ma grirava forti 'i rraggia,
ma grirava com' 'a paccia
ddhà matina ccà rassava
suli, mari e lu me' cori.”


E spessu pensu a tandu
ma ora staiu turnandu
“O' Scigghiu or comu si stà?
Cu' sa,  cangiau 'a genti,
ch' i fatti ha cchiù rispettu
o è ancor cusì indolenti?”
E spessu pensu a tandu
ma ora staiu turnandu
“O' Scigghiu or comu si stà?”


Ma sintivu chi 'i cangiari
c'era 'u modu, tu putivi
nu paisi, tantu beddhu
sulu 'a so' billizza sfoggia
ma nu' atri simu stanchi
ccà è 'na verra, basta sangu
si po' fari se si voli:
batti 'a noia chi t'assali,
iza 'a cura, fatti sintiri,
chi cu' è fora si cunsola.


E spessu pensu a tandu
ma ora staiu turnandu
“O' Scigghiu or comu si stà?
Cu' sà, cangiau 'a genti,
ch' i fatti ha cchiù rispettu
o è ancor cusì indolenti?”
E spessu pensu a tandu
ma ora staiu turnandu
“O' Scigghiu or comu si stà?”

14 maggio 2010

CONTINUIAMO A SORPRENDERCI!

 "La Regione Calabria, al fine di consentire uno sviluppo economico e sociale libero da condizionamenti illegali e con l'intento di contrastare il sempre più crescente fenomeno mafioso, promuove la realizzazione di interventi volti a prevenire e combattere il fenomeno dell'usura e dell'estorsione ed istituisce misure di solidarietà in favore delle vittime di reati, con particolare riferimento alla criminalità organizzata, all'estorsione e all'usura"

Così recita il primo articolo della Legge Regionale n° 31del 16 Ottobre 2008.


In pochi sanno di che legge si tratta. La disposizione che si applica, o meglio, si potrebbe applicare in tutto il territorio regionale, prevede espressamente " Interventi regionali in materia di sostegno alle vittime della criminalità e in materia di usura". Sono solo 18 articoli -di cui 14 quelli che danno effettiva "sostanza"- che invitiamo tutti a leggere per conoscere.
Costituiscono, unitamente al  regolamento applicativo,  lo strumento operativo che la Regione ha messo a disposizione dei suoi cittadini danneggiati -più o meno gravemente- dalla criminalitàper aiutarli a non avere paura, a essere consapevoli che lo Stato è comunque al loro fianco e non li abbandona, ma anzi li assiste e li aiuta a rimettersi in piedi dopo una caduta.
Non so quanti di noi fossero effettivamente, a parte naturalmente le associazioni interessate e coloro che l'hanno approvata. L'applicazione più immediata si è verificata con la costituzione di parte civile da parte della Regione nei processi di mafia che sono iniziati dopo la pubblicazione della Legge.
Fate attenzione alla data: il 16 ottobre 2008 ricorreva il terzo anniversario della morte dell'On. Franco Fortugno, ucciso in un agguato mafioso mentre era vicepresidente del nostro Consiglio Regionale.
Quella data ha segnato un punto di svolta nella percezione del fenomeno mafioso per tutti gli onesti cittadini calabresi. C'è stata una presa di coscienza tale da consentire un senso di ribellione che mai prima d'allora si era verificato in Calabria, con la nascita di movimenti che poi si sono estesi a tutta Italia. Uno fra tutti: Ammazzateci tutti!
Coloro che si sono succeduti sul palco hanno ricordato e raccontato a loro stessi e agli altri le sofferenze patite -in passato e nel presente- a causa della criminalità mafiosa. Nessuno di loro, almeno da due anni a questa parte, credo  abbia mai pensato di servirsi della suddetta Legge regionale.
Scrive don Francesco Cuzzocrea nel suo commento alla manifestazione:
"Mi sarei anch’io aspettato qualcosa di più concreto…forse anche il sentire proposte e impegni concreti o anche solo il coraggio di vedere altre vittime su quel palco ma…pazienza! Il cammino della Riconciliazione è tra i più ardui della storia."
Beh, una proposta è venuta grazie  al forte e deciso coordinamento di Libera: il primo passo da fare è quello di sfruttare appieno le possibilità che la Legge stessa ci offre. Quella Legge di cui molto spesso lamentiamo l'inadeguatezza o, peggio, l'assenza.
A questa presa di coscienza, dovrà seguire l'impegno di ciascuno di noi, perché lo "spirito" del 14 Maggio non svanisca.
Ecco, venerdi scorso, tutti insieme, abbiamo fatto il primo passo di questo arduo cammino, nella consapevolezza che sarà comunque meno duro se ci daremo una mano a vicenda. Come hanno affermato le associazioni scillesi nel loro intervento, è "L’inizio di un percorso che ci porti a riappropriarci del senso della legalità, della giustizia e del rispetto delle regole."
Molti si sono emozionati, in piazza l'altra sera. Molti si sono sorpresi per il modo in cui si è svolta la manifestazione. E' la prima volta che una cosa del genere accade a Scilla.
E l'emozione, la sorpresa, sono sentimenti che non dimostrano certo indifferenza e rassegnazione bensì il coraggio, la vitalità di una comunità intera che, magari, fino allo scorso 14 Maggio era rimasta inespressa, almeno pubblicamente, nascosta, come qualcosa di cui vergognarsi.
Ma non ci si può,  non ci si deve vergognare di questi sentimenti, di sentirsi liberi, vivi, perché continuare a sorprendersi significa vivere.
Perciò, continuiamo a sorprenderci!

09 maggio 2010

E' PAVATU!

Quando scoppiò tangentopoli, tutti furono felici e contenti. Si disse: "E' finita l'epuca ri 'mbrugghiuni e ri latri, chi si mangiaru l'Italia". 
Per sgombrare il campo dai vecchi rottami di quei partiti che avevano governato l'Italia in tempi non certo migliori di questi, ci si affrettò ad eliminare i vecchi simbolismi: lo scudo crociato e il garofano, in primis, da simboli ideologici divennero simboli della vergogna più assoluta, di qualcosa che, improvvisamente, tutti (o quasi) hanno disconosciuto mentre correvano. Andavano lontano dall'Italia o correvano a nascondersi, fuori dalla luce dei riflettori della ribalta mediatica italica.
Del "vecchio", vuoi per una ragione, vuoi per un'altra, resistettero solo la falce e il martello. Ma erano arrugginiti, e siccome nessuno aveva voglia di darsi da fare con la carta vetrata per dargli una pulita, si fece una cosa più semplice:  li si nascose all'ombra di una quercia.
Non tanto bene, poiché un piccolo gruppetto, o perché nostalgico o perché, nonostante tutto profondamento convinto, li dissotterrò, riproponendoli al pubblico seppur arrugginiti, mentre gli altri, ex compagni, voltavano la testa dall'altra parte, fingendo di non accorgersene, in fondo contenti di essersi levati, formalmente, le insegne di un peso ingombrante.
Non passò molto tempo però, che i neocompagni si divisero, vittime di incomprensioni e di visioni che provocarono una sorta di "atomizzazione" della sinistra: unu si prese la falce, uno il martello, altri ancora il manico della falce, altri ancora il manico del martello. Tutti, si ritrovarono in mano qualcosa privo d'identità, inservibile.

Ad accompagnarli, l'alfiere, il paladino che aveva scardinato il vecchio sistema di potere e,  in cambio, aveva ricevuto una sorta di legittimazione politica a furor di popolo, il quale, reso cieco dalla troppa gioia per essersi liberato dell'odiata partitocrazia, lo acclamò come gli antichi tribuni romani.

Dall'altro lato, a destra,la barchetta di chi era stato diseredato perché figlio di un "padre" che aveva portato l'Italia alle rovine della guerra, trovò così lo spazio libero in quel mare di confusione e, attuando una profonda "conversione democratica", si è dato una nuova identità, arrivando dopo mezzo secolo a rivedere le poltrone più pregiate dei nostri palazzi istituzionali.

Alla barchetta si affiancò una nave, a bordo della quale salì o si arrampicò su per le murate con le unghie e con i denti un'umanità varia, comprendente il capopopolo di un'entità non identificata e alcuni naufraghi dei vecchi partiti, usciti dall'ombra e intruppatisi senza dar nell'occhio.
A guidare la nave non era un esperto capitano, ma un semplice cantante di bordo, che -un karaoke oggi e uno domani- ammaliò tutti coloro che non si erano voluti tappare le orecchie con il suo canto melodioso e incantatore, peggio delle sirene con Ulisse.

Era la seconda Repubblica. Era il nuovo che avanzava. Niente più sarebbe stato come prima. 
Oggi, a distanza di quasi vent'anni, possiamo dirlo: c'eravamo illusi. E illusione fa rima con delusione.
Qualche mese fa, il presidente della Camera Fini disse «Oggi chi ruba non lo fa per il partito ma perché è un ladro. »
Ma anche chi rubava per il partito era un ladro. Le differenze sostanziali con oggi sono due. La prima: chi veniva "beccato", pur di non arrecare danno al partito, nella maggioranza dei casi era lesto a dimettersi. Cadevano i governi, si facevano i rimpasti e l'Italia andava avanti. 
La seconda: a mia memoria, non ricordo che qualche ministro o presidente della prima Repubblica si sia fatto sorprendere a "fare shopping" con i soldi presi dalle tangenti. Nessuno sapeva. O meglio, lo sapevamo tutti, o quantomeno lo intuivamo, ma non lo vedevamo, perciò...occhio non vede cuore non duole. Diciamo che quelli della prima Repubblica erano ladri intelligenti, furbi.
Poi, chi foraggiava questo sistema, vale a dire gli imprenditori e i gruppi di potere di un tempo, gli affari non li concludeva nelle segrete stanze, ma prima al ristorante e dopo al bar, davanti a un buon caffè. Chiuso l'accordo, se solo il politico accennava a metter mano al portafogli per pagare il conto, l'omino alla cassa, su idonea segnalazione, lo rassicurava: "No, Onorevole, già fattu. E' pavatu!"

La recente vicenda che ha visto coinvolto l'oramai ex ministro Scaiola, mi ha in un certo senso richiamato alla mente questa consuetudine. Sì, perché l'Italia era e resta una Repubblica fondata sul...rito del caffé.
Solo che oggi, l'equipaggio della nave che ci governa, il nuovo, o meglio, il riciclato che avanza, si crede di essere talmente intoccabile da aver dimenticato cosa vuol dire vergogna. 
Uno stato d'animo dal quale lo stesso equipaggio è divenuto praticamente immune. Ed è proprio questa sicurezza però che lo conduce a frequenti svarioni e malaviruti che i "volponi" di un tempo non avrebbero mai commesso.

Invece Scaiola stesso, arrendendosi, dice: "Forse qualche cazzata l'ho fatta..." [da http://www.repubblica.it/politica/2010/05/05/news/scajola_addio_tra_le_lacrime_berlusconi_mi_ha_mollato-3823582/]

L'ex ministro, non trovando di meglio come giustificazione ha affermato: "Non so né di assegni circolari, né di altri pagamenti diversi da quanto da me versato con il mutuo bancario per l'acquisto dell'appartamento in questione. ...Non ho mai ricevuto denaro da Anemone, da suoi intermediari o da chiunque altro" [da http://www.repubblica.it/politica/2010/05/01/news/intervista_scajola-3740035/]

In verità, come acclarato da tutti gli organi d'informazione (di destra e di sinistra), sapeva di aver pagato almeno altri 200.000 euro in contanti e in nero.
Può anche non aver ricevuto soldi dall'imprenditore (almeno direttamente), ma certamente, se le proprietarie dell'appartamento non avessero ricevuto l'intera somma (1.700.000 euro) non sarebbero mai andate  insieme al ministro davanti al notaio.
Al quale, tra l'altro, hanno dichiarato un prezzo cui corrisponde un valore unitario che è nettamente inferiore 'i 'na casa a' Marina o a' Chianalea
Con somma sorpresa (!?) del ministro Scaiola, al quale le due sorelle, stringendo nella mano sinistra 41 assegni ciascuno, porsero la mano destra e con un largo e rassicurante sorriso, dissero: "E' pavatu!"
E già, pavatu quantu a 1.200.000 café o giù di lì.  I nuovi ladri, non sulu stanno continuandu a mangiarsi l'Italia, s'a stannu puru 'mbivendu, s'a stannu propriu zzucandu.

02 maggio 2010

GLI UOMINI I CAPORALI E PASQUALE CAFIERO

 Ieri, la festa del lavoro i sindacati italiani l'hanno festeggiata a Rosarno, divenuta il luogo simbolo del lavoro sfruttato, dell'umanità sfruttata.
La vicenda di Rosarno è stata l'umana e reale rappresentazione di quell'umanità così efficacemente descritta in "Siamo uomini o caporali" del grande Totò.

Forme di sfruttamento del lavoro ne sono sempre esistite (e continuano ad esisterne), ma se guardiamo al passato, nel lavoro, pur nella mancanza di quegli strumenti normativi che i sindacati hanno saputo conquisatre in tempi relativamente recenti a tutela dei lavoratori, in molti altri casi era presente qualcosa che oggi si è perso. Almeno nel nostro "microcosmo" scigghitano, che poi è lo stesso di Rosarno e di tante altre parti d'Italia.

Mio nonno paterno -che putroppo non ho mai conosciuto- era un contadino, nu capuomini, come si diceva un tempo.
Era colui che, facendo sempre e comunque il suo mestiere di contadino- aveva con sè una squadra di uomini, che coordinava in maniera tale da svolgere al meglio la faticosa attività nei campi. Ogni sera, predisponeva il lavoro per il giorno seguente, tenendo presente in quali e in quanti terreni veniva chiamato dai diversi proprietari dell'epoca (famiglie benestanti o borghesi del tempo) e, sopratutto, le capacità degli uomini che aveva a disposizione.
Così, conscio del fatto che tutti i suoi compagni di lavoro erano padri di famiglia, sceglieva quali e quanti uomini mandare a svolgere un lavoro magari più pesante e quanti altri, invece, potevano dedicarsi a lavoretti diciamo così di normale amministrazione.
Quella di capuomini non era una carica dalla quale derivava un potere. Era semplicemente una qualifica che veniva riconosciuta dagli altri contadini sulla base di una maggiore capacità, una maggiore esperienza di gestire le varie e diverse situazioni che si presentavano, non ultimi i rapporti da mantenere con i proprietari terrieri.
Il capuomini, se vogliamo, era l'imprenditore agricolo di oggi. Ma, a differenza di quello attuale, l'unico capitale che aveva a disposizione, di cui gli stesso era parte integrante, era quello umano. 

Per questo, anche se non c'erano leggi che lo prevedevano espressamente, il capuomini cercava in primo luogo di salvaguardare la salute dei propri uomini, rispettando sempre e comunque la dignità di ciascuno di loro. Non lo faceva per un ragionamento utilitaristico, ma solo perché viveva nell'osservanza di quel rispetto verso gli altri che gli derivava esclusivamente dalla consapevolezza che solo agendo in quel modo poteva davvero dire di essere un buon padre di famiglia, un uomo.

Col tempo, questo rapporto così speciale si è modificato. 

Mentre il vecchio capuomini, con la sua capacità ha ingrandito la propria attività divenendo magari un piccolo imprenditore agricolo con moderni mezzi e moderne strutture, c'è stato chi ha pensato di prendere il suo posto.
Ma non l'ha fatto come s'era fatto fino ad allora. L'ha fatto per diventare un "capo di uomini", modificando non solo l'ortografia ma la semantica delle parole, stravolgendone completamente il significato originario, sottraendo loro un elemento fondamentale: la condivisione. 
Il "capo di uomini" non condivide il lavoro, la fatica. Comanda, arruola uomini perché siano al suo servizio, assoggettati, sottomessi. Il "capo di uomini" è il caporale.

Così, da capo, il caporale pretende il rispetto, impone la sua autorità. Un'autorità a senso unico, visto che forse per uno strana applicazione umana di quella legge fisica che afferma che "a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria", i caporali non si sono mai sognati di riconoscere da parte loro l'autorità dello Stato, della sua organizzazione sociale. 

E' un'autorità autoindotta, che gli deriva dalla percezione stessa che ha di lui chi soggiace a questa situazione e non riesce più nemmeno a fiatare, che lo fa assurgere a unica figura di riferimento cui affidare anche il più minimo bisogno. 

E le condizioni che, in piccolo, hanno permesso al caporale di sfruttare i "suoi" uomini, hanno la stessa genesi, lo stesso humus nel quale, se ragioniamo su scala più grande, nasce, cresce e si rafforza la figura del boss.
Colui al quale viene riconosciuto un carisma, anche qui autoindotto dalla debolezza altrui, tale da attribuirgli  addirittura "virtù di pace", che valgono il pubblico plauso.

Ma ad applaudire questi "don Raffae'", non sono altro che quei pochi "Pasquale Cafiero" così magistralmente descritti da De Andrè.
Quelli che, rivolti al boss perché aiuti un "povero cristo", lo invitano a casa e quasi in adorazione, dandogli del "voi", dicono:

"Voi vi basta una mossa, una voce
c'ha  'sto Cristo ci levano a croce
con rispetto, s'è fatto le tre,
vulite a spremuta o vulite 'o cafè"


Il giorno in cui non ci saranno più "Pasquale Cafiero", forse il peso di questa croce che è la criminalità organizzata (tutta e in tutte le sue forme), sarà più leggera. Per tutti.